Lo spirito di Averroè

Lo spirito di Averroè

Averroè nacque in una famiglia di famosi giuristi della scuola malikita; sia il nonno paterno che il padre erano autorità locali incaricate di amministrare la giustizia nella Cordova almohade. Divenne medico, giurista e filosofo. Fu anch’egli qadi di Siviglia e poi di Cordova. Scrisse numerosi commenti su Aristotele, alcune opere filosofiche originali e una enciclopedia di medicina. L’opera filosofica più importante di Averroè fu L’incoerenza dell’incoerenza (Tahafut al-tahafut), diventata in lingua latina la Destructio destructionis philosophorum, in cui egli prese le difese della filosofia aristotelica contro le critiche esposte da al-Ghazali nel trattato L’incoerenza dei filosofi (Tahafut al-falasifa), che in latino era diventata la Destructio philosophorum, in cui si sosteneva che il pensiero di Aristotele, e la filosofia in generale, fossero in contraddizione con l’Islam. La tesi fondamentale di Averroè era esattamente opposta: egli sosteneva che la verità può essere raggiunta sia attraverso la religione rivelata sia attraverso la filosofia speculativa. Durante l’ondata di fanatismo religioso che attraversò al-Andalus alla fine del XII secolo, egli fu esiliato e tenuto sotto controllo fino alla morte. Molte delle sue opere di logica e metafisica furono distrutte dalla censura. La morte di Averroè, in esilio, si può considerare come simbolo della fine della cultura liberale nella Spagna islamica. Storicamente, Averroè fu importantissimo per le sue traduzioni e commenti delle opere di Aristotele, che in Occidente erano state quasi completamente dimenticate (prima del 1150 solo pochissime opere aristoteliche erano accessibili nell’Europa latina). Il recupero della traduzione aristotelica in Europa deve moltissimo alla traduzione in latino degli scritti di Averroè, iniziata nel XII secolo. Fra gli altri, Tommaso d’Aquino fu influenzato dalle idee di Averroè; il filosofo cristiano lo riteneva così importante da non chiamarlo per nome, bensì “il Commentatore”, con la stessa deferenza con cui chiamava Aristotele “il Filosofo”. I suoi scritti furono tradotti in ebraico da Jacob Anatoli nel XIII secolo e influenzarono la filosofia ebraica da Maimonide fino a Spinoza. Averroè divenne medico del califfo Abu Yaqub Yusuf e fu nominato giudice a Siviglia e poi a Cordova; il califfo stesso gli diede il compito di commentare le opere di Aristotele. La sua situazione favorevole non mutò nei primi anni di regno del nuovo califfo al-Mansur, successo al padre nel 1184, ma verso il 1194 Averroè dovette subire un processo e varie sue opere furono distrutte. Per questa ragione, una parte di esse é sopravvissuta solo in versioni ebraiche e latine.

Esiliato nei pressi di Cordoba, Averroè concluse la sua vita a Marrakesh in Marocco. Averroè diventerà noto presso i latini soprattutto come commentatore di Aristotele. Dante stesso nell’ Inferno (IV, 144) lo definisce come colui “che ‘ l gran comento feo” . I suoi commenti sono di tre tipi : 1) commenti brevi , consistenti in sommari, parafrasi ed estratti di passi dalle opere commentate; 2) commenti medi e, infine, 3) commenti grandi, di maggiore estensione e complessità. Sono stati conservati tra gli altri i commenti medi alle “Categorie” , alla “Retorica”, alla “Poetica”, alla “Fisica”, al “De caelo” e a “Generazione e corruzione”, oltre ai commenti grandi al “De anima” e alla “Metafisica” di Aristotele; Averroè scrive anche un “Commento alla Repubblica” di Platone e uno all’ “Isagoge” di Porfirio. Ma il filosofo per eccellenza rimane ai suoi occhi Aristotele: egli mira a comprenderne il pensiero autentico, convinto che le verità acquisite per via filosofica non siano in contrasto con la rivelazione del Corano, che é infallibile . Erroneamente nell’Occidente latino sarà attribuita ad Averroè la cosiddetta dottrina della doppia verità, secondo la quale la verità a cui si può pervenire con la ragione per via puramente filosofica é diversa e talora contrastante con la verità di fede: come a dire, la ragione mi porterebbe a dire certe cose (per esempio che l’anima non è immortale), ma la fede mi fa dire l’opposto. In realtà, per Averroè, la verità é una, non c’é maggior verità nella filosofia rispetto alla religione o viceversa; piuttosto , la filosofia deve essere riconosciuta come legittima anche dal credente, in quanto non contrasta, bensì conferma la rivelazione. Questa tesi é argomentata da Averroè in un’opera, composta fra il 1177 e il 1180, intitolata “Libro della distinzione del discorso e della determinazione della conoscenza tra legge religiosa e filosofia” . La verità é una, ma molteplici sono i gradi e i modi in cui si accede ad essa. A tale proposito Averroè riprende da Aristotele la distinzione tra tre tipi di argomentazione : a) dimostrativa o scientifica, che parte da premesse vere; b) dialettica, che parte da premesse condivise dai più o dai più autorevoli; c) retorica , che parte da premesse che paiono persuasive all’auditorio. Esse rappresentano tre vie attraverso le quali ci si accosta alla verità: quella dimostrativa é propria del filosofo, quella dialettica lo é del teologo e quella retorica é appropriata ai più, inclini ad immaginarsi in maniera antropomorfa la divinità. I tre livelli e modi di comprensione della verità corrispondono a tre livelli di una gerarchia tra uomini, ma tutti i modi pervengono a riconoscere – anche se per vie diverse – che Dio esiste ed é uno e ha creato il mondo, di cui si prende cura provvidenzialmente; che Maometto é il suo profeta; che dopo la morte l’uomo sarà giudicato da Dio e destinato all’Inferno o al Paradiso e che avverrà la resurrezione finale . E’ una concezione aristocratica della verità: i migliori, ossia i filosofi, raggiungeranno una verità di più alto livello – guidati dalla sola ragione – , mentre i peggiori (gli uomini comuni) raggiungeranno attraverso la religione una verità meno elevata, quasi divulgativa. La fede, tuttavia, é necessaria e obbligatoria per tutti, anche per i filosofi, secondo Averroè; ma, per questi ultimi, é anche lecita la ricerca razionale, che perviene a conclusioni cogenti.

Il problema é non commettere l’errore dei teologi, che, divulgando i punti oscuri e segreti dell’interpretazione del testo sacro anche a quanti non sono in grado di comprenderli, fanno nascere le eresie. La stessa cosa avverrebbe se la filosofia mettesse in mano ai più, incapaci di usarli propriamente, i propri strumenti argomentativi: ogni tipo di discorso deve quindi essere adeguato ai propri destinatari. La filosofia , in particolare , deve indirizzare le proprie dimostrazioni solo a quanti sono in grado di seguirle e con ciò Averroè ribadisce la propria concezione elitaria del sapere filosofico. Il filosofo, che si comporta seguendo queste indicazioni, tributa a Dio il culto migliore, che consiste nel conoscere le sue opere e, attraverso di esse, Dio stesso: in tal modo, Averroé accoglieva da Aristotele la tesi del primato della vita teoretica. L’assunzione di questa prospettiva conduce inevitabilmente Averroè a prendere posizione contro le critiche mosse da al-Gazali ai filosofi nello scritto su l’ “Incoerenza dei filosofi”. A tale scopo Averroè scrive un’opera intitolata “Incoerenza dell’ incoerenza”, che sarà nota ai latini come “Distruzione della distruzione”. Averroè rifiuta la concezione di Dio, proposta da al-Gazali, come di un Signore dotato di arbitrio assoluto, e di una natura nella quale i fenomeni non presentano alcun rapporto causale . Certo la natura dipende da Dio, ma ciò significa che essa é organizzata da lui come un insieme di fenomeni caratterizzati dalla regolarità e da relazioni causali stabili, secondo un ordine necessario: per questo la natura può essere oggetto di conoscenza. Il rapporto di dipendenza del mondo da Dio, secondo Averroè, non può essere propriamente spiegato mediante la dottrina della creazione. Parlare di creazione é solamente un modo figurato, adatto per i semplici, perchè, attraverso l’immagine dell’attività produttrice umana, serve a far comprendere ai più che il mondo non é e non può essere causa di se stesso, ma dipende da Dio. Se invece per creazione si intende un atto volontario, con il quale Dio dà inizio al mondo nel tempo, allora nascono delle difficoltà. Questa tesi comporta, infatti, che Dio subisca un mutamento, decida e faccia qualcosa di diverso e nuovo, o per motivi esterni alla sua natura o in virtù della sua natura; ma entrambe le alternative sono insostenibili: Dio infatti non può mutare nè ha nulla fuori di sè, quindi il volere di Dio é continuo ed eterno, non dipende da intenzioni particolari mutevoli. Ma, se é così, ne deriva che anche ciò che esso vuole é eterno: dunque, aveva ragione Aristotele a dire che il mondo é eterno. Averroè fa così propria la dimostrazione aristotelica dell’esistenza di un primo motore immobile, poichè, in quanto é atto puro, Dio é eterno principio di movimento. CONTINUA A LEGGERE

Fonte: Wikipedia